Alcuni giorni fa avvio Twitter (che proprio non riesco a chiamare “X”) e mi ritrovo in timeline un tweet (che ancora non riesco a chiamare “post”) di Andrea Delogu:
“Non vi siete stancati di dare la vostra opinione? Cioè, senza che nessuno ve lo chieda intendo.”
Le risposte – come sempre in questi casi – variano dall’entusiasmo complimentoso all’offesa puerile, con qualche escursione didascalica sui principi fondamentali della libertà. Non seguo Andrea Delogu: il tweet mi appare citato dall’Alieno Gentile (il quale, ricordo, ha una newsletter qui) galleggiante in un flusso indistinto di informazioni e factoids che – nonostante i tentativi – non controllo più io e che sarebbe passato inosservato se non fosse così adeguato al tema che avevo scelto per il numero odierno.
Commenta, opportunamente, l’Alieno:
“La domanda non è per niente peregrina, anche se le risposte sotto il tweet evocano la democrazia, la libertà e prosopopea assortita. Esprimere un’opinione è cosa diversa averla e/o da poterla esprimere. Mentre il dubbio che pur di esprimere qualcosa si scriva, senza averla, c’è.”
Velocità
La velocità è un tratto distintivo dei social:
di accesso, tramite strumenti onnipresenti e sempre accesi
di lettura, in un feed infinito e nuovo a ogni refresh
di pubblicazione, limitata solo dal tempo materiale della digitazione
di feedback, verificato da like, statistiche, commenti, reazioni
Il tempo intermedio tra l’emersione di un’idea (intesa nel senso più lato come un concetto embrionale, disarticolato, spesso carico più emotivamente che contenutisticamente) e la sua espressione si fa così sottile da diventare impercettibile. Il vaglio critico di questa esternazione (“è corretta? è opportuna? è privata?”) soccombe di fronte a un bisogno impulsivo di “emissione” libera e incontrastata. A chi lo fa notare, anzi, viene sollevata una eccezione di illiberalità: chi sei tu per porre limiti al mio diritto di esprimermi?
Il tweet di Alieno Gentile fa un passo in più di quello che vorrei fare oggi ma che non posso non cogliere: il sospetto che il contenuto stesso sparisca di fronte a un’espressione che ha la sola funzione di affermare: “Io esisto, io sono qui, qualcuno mi veda”.
Corpo
Un secondo tratto distintivo dei social è una differente presenza del corpo (di questo argomento, che sarebbe sconfinato, voglio fare qui solo alcuni cenni). Il rapporto con l’Altro è sempre, in qualche misura, anche corporeo; la voce presenta il nostro corpo in una telefonata; la sua forma appare in una trasmissione televisiva; la firma, per convenzione vergata a penna, autentica persino la più formale delle lettere. Anche quando la sua traccia è nascosta, l’essere dell’Altro “anche un corpo” (cioè un Leib, un corpo-vivo, una persona in carne e ossa) è sempre ben presente alla nostra coscienza.
Nell’interazione social questo corpo-vivo diventa rarefatto – e qui intendo non tanto quello dell’Altro quanto il nostro: questo sparisce in una continuità impulso → idea → emissione che non pretende che esso assuma una postura, la sua voce un tono, il suo viso un’espressione, che lascia celata agli occhi e al giudizio del mondo ogni manifestazione di cui possiamo eventualmente dover rendere conto se, appunto, “visti”.
A fare da contraltare a questo nascondimento del corpo1, la mente si dischiude impudicamente in una interminabile trasmissione in diretta dei nostri umori e dei nostri pensieri così come emergono (a volte, persino mentre emergono).
Pudore e vergogna
È poco noto che, durante la cacciata dal giardino dell’Eden, Dio abbia fatto ad Adamo ed Eva uno strano regalo (Gen 3, 21):
Poi il Signore Dio fece ad Adamo e a sua moglie Eva delle tuniche di pelle, e li vestì.
Le interpretazioni della tradizione ebraica su questo passo sono numerose (perché Dio regala loro – che già avevano iniziato a coprirsi – dei vestiti? E perché di pelle? Pelle di che animale?). Ce n’è una particolarmente suggestiva. Scrive Delphine Horvilleur in Nudità e pudore:
In altri commentari (in particolare nello Zohar, ma anche negli scritti di Filone di Alessandria), troviamo un’idea ancora più sorprendente: la materia che costituisce la tunica cucita da Dio non sarebbe altro che la pelle stessa dell’uomo. Questa lettura ha il coraggio di suggerire che nel giardino dell’Eden l’umanità fosse “a-dermica”, senza pelle: non scorticata viva, ma per natura priva di membrana dermica... La nudità del giardino dell’Eden sarebbe stata dunque di ordine dermatologico. L’uscita dal paradiso obbliga l’essere umano a ricoprirsi di uno strato del quale non disponeva prima. Nel mondo delle origini, quello del giardino dell’Eden, l’uomo era sprovvisto della membrana che lo separava dal mondo. Da quel momento viene invece dotato di una frontiera corporea, un confine tra lui e ciò che lo circonda.
Se nel paradiso l’uomo era trasparente al suo prossimo, dal quel momento viene reso opaco da una copertura in pelle. Quindi la caduta corrisponderebbe non a una perdita dell’ingenuità, ma alla fine di una condizione originale luminosa e diafana, che cede il passo all’ingresso nel mondo dell’opacità. Passiamo dal mondo della trasparenza a quello dove ci si ricopre. L’uomo dell’Eden non era cosciente della propria nudità perché non era consapevole della separazione tra sé e il mondo. Ma con la caduta l’infinita trasparenza si restringe a poco a poco: l’uomo percepisce le membrane del mondo, e dunque anche le proprie, sa di essere nudo e che lo sguardo dell’altro può posarsi su di lui. Nasce così il bisogno di coprirsi. Quando si è trasparenti non c’è bisogno di nascondersi, è quando si cessa di esserlo che ci si sente troppo nudi per restare allo scoperto.
La pelle è il confine materiale del nostro corpo: per quanto possa proiettarsi al di là di essa con la vista (e i gesti) o l’udito (e la voce)2, è la pelle a segnarne i confini.
E di nuovo la pelle, nel greco omerico, diventa modo di riferirsi al corpo stesso, in particolare quando lo si intende nella propria delimitazione o superficie. Scrive Bruno Snell ne La cultura greca:
Proseguendo nel gioco di trasportare non la lingua di Omero nella nostra, ma la nostra lingua in quella omerica, scopriamo altri modi di rendere la parola «corpo». Come dobbiamo tradurre «egli si lavò il corpo»? Omero dice: χρόα νίζετο. Oppure, come dice Omero, «la spada penetrò nel suo corpo»? Qui Omero usa ancora la parola χρώς (chrōs): ξίφος χροὸς διῆλθε. Riferendosi questi passi, si è creduto che χρώς significasse «corpo» e non «pelle».
Ma non c'è dubbio che χρώς sia davvero la pelle; naturalmente non la pelle in senso anatomico, la pelle che si può staccare, che sarebbe il δέρμα (derma), bensì la pelle come superficie del corpo, come involucro, come portatrice del colore e così via. In realtà χρώς assume in una serie di frasi ancor più decisamente il significato di «corpo»: περὶ χροὶ δύσετο χαλκόν, cioè «egli cinse intorno al busto la corazza» (letteralmente, intorno alla pelle).
La perdita del pudore (la necessità di mantenere alcune cose per sé) e della vergogna (il disagio nel mostrarsi “nudi” – in senso lato – di fronte agli altri) è forse riconducibile, allora, a questa discesa in una dimensione molto più ancestrale di quanto spesso immaginato: una dimensione quasi “prenatale”, protobiblica, edenica, in cui non ci sono vergogna o pudore perché non c’è peccato (lascio immaginare quanto distante sia da qui il solo concetto della responsabilità) e non c’è peccato perché non c’è discontinuità con l’Altro, in una – purtroppo solo presunta – idea di completa compenetrazione e assenza di confini (anche e soprattutto somatici).
L’uomo-pupilla
Scrive sempre Horvilleur, nell’introduzione al proprio saggio:
Viviamo da decenni in una civiltà all’insegna del “nulla da nascondere”, l’era in cui si mostra tutto, dove si ritiene convenga non ostacolare, se non in misura minima, il desiderio di vedere e di concedersi alla vista. Visibilità e trasparenza sono magnificate come espressioni di libertà individuale (…). In nome della visibilità l’intimità è spesso oltraggiata e i confini della vita privata divengono evanescenti.
(…)
In questo, con le imposizioni delle tradizioni religiose riguardanti la decenza molto spesso si sfiora il paradosso: si espone la donna al rischio dell’oscenità pur invocandone il pudore. Si fa del suo corpo intero un tabù, un sesso da nascondere in continuazione nello spazio pubblico. Qualsiasi donna che venga ridotta alla condizione di “essere senza volto”, cioè senza individualità, non ha più altro da esprimere che la sua natura sessuata.
Sull’altro versante, l’uomo si ritrova simbolicamente amputato di una parte della sua anatomia: le palpebre. Ogni maschio non è più altro che occhio, o più esattamente quello che Fethi Benslama chiama “uomo-pupilla”3, un essere obbligato a “spiare” e incapace di restringere il campo visivo o di sbattere le palpebre.
Per coltivare ulteriormente lo spunto di Horvilleur, mi chiedo anche io, a questo punto, se questa permeabilità morbosa non corra in entrambe le direzioni e se, alla diafanizzazione del mio stesso corpo quando mi rapporto all’Altro attraverso i social non faccia da contrappunto la fatica spesa per non diventare irreversibilmente un uomo-pupilla, sempre meno capace di dire: “No, grazie, davanti a questo chiudo le palpebre”.
Grazie per l’attenzione,
Cristiano M. Gaston
Mi si può rispondere che i social basati su video e foto mostrano il corpo. Si tratta però di una forma più sottile di nascondimento, essendo ogni pubblicazione coreografata, vagliata, corretta, in un processo di sostanziale falsificazione.
Sensi di cui ho parlato, peraltro, nel numero scorso.
F. Benslama, “Le voile de l’Islam”, in Contretemps 2/3 (1997), pagg. 99-111.
Grazie per gli spunti. Rispetto alla capacità di chiudere le palpebre io trovo interessante che questo momento storico veda un grande successo (e ritorno) alle pratiche di meditazione che si svolgono, quasi sempre, a occhi chiusi.