L’espressione “alternative facts” è stata partorita il 22 gennaio 2017 in modo (direi involontariamente) geniale da Kellyanne Conway durante un’intervista con Chuck Todd per “Meet the Press”, trasmissione domenicale della NBC. Poco conta l’argomento: era uno come tanti. Anzi, non c’era nulla di speciale in quel dibattito, vista la frequenza con cui la Casa Bianca diramava attraverso ogni canale informazioni fattualmente false. In un Paese in cui fino a quel momento una sola menzogna poteva costare l’impeachment, le bugie di Trump erano così continue e ripetute che il Washington Post aveva dovuto aggiungere un nuova categoria al proprio servizio di fact-checking (il “bottomless Pinocchio”).
Nonostante la precisazione di Todd (“Look, alternative facts are not facts: they’re falsehoods”), quel giorno Conway ha però sancito ufficialmente ciò che evidentemente era già nelle cose: il primato dell’asserzione su qualunque principio di realtà condivisa.
Alla ricerca della realtà
“Qualunque principio di realtà condivisa” è una locuzione un po’ convoluta. Qui, infatti, casca l’asino. Anche se siamo portati a intuire immediatamente cosa sia “reale” o “vero”, la difficoltà a trovare dei fondamenti a questa intuizione è antica come la filosofia. Lo splendore della lingua greca riassume il problema nella parola stessa: il termine per “verità”, a-létheia (ἀλήθεια, composto da un’alfa privativa e dalla radice del verbo lanthàno, nascondere), indica che essa – “ciò che non è (più) nascosto” – non è un dato immediato ma qualcosa che può essere ottenuto solo attraverso un processo di dis-velamento.
Nell’esperienza comune non abbiamo tempo e risorse energetiche per operare questo processo ex novo a ogni stimolo: ricorriamo quindi automaticamente a una serie di assunzioni, deduzioni, presunzioni in base alla nostra esperienza e alle circostanze, in modo da fornire velocemente una risposta comportamentale che sia adeguata all’ambiente.
I meccanismi attraverso cui conosciamo il mondo esterno sono molti, complessi e stratificati. Fra essi (ne indico solo alcuni):
C’è un piano somatico, quello delle sensopercezioni, in cui il dato sensibile viene integrato con l’esperienza. La sensopercezione ci appare come immediata e incontrovertibile, eppure già a questo livello il nostro cervello opera in modo attivo (percezione), non solo passivo (sensazione).
C’è un piano psicologico, sul quale operano i nostri pre-giudizi.
C’è un piano psicodinamico, nel quale i nostri conflitti intrapsichici ci portano a “preferire” alcune interpretazioni e a “rimuoverne” altre.
C’è un piano sociale, in cui attribuiamo a ogni fonte di informazione una propria attendibilità – sia che si tratti di un individuo sia che si tratti di un complesso di idee o di visioni del mondo (come possono essere una ideologia politica, una fede, una formazione culturale etc.). A questo livello operano anche la peer pressure e il senso di vergogna.
C’è un piano tecnologico, attraverso il quale il medium non è mai veramente neutrale e che, soprattutto nella civiltà contemporanea, è capace di inserirsi in modo semitrasparente nei processi di conoscenza e influenzarli in modo pressoché invisibile (efficace, a questo proposito, il gioco di parole di Marshall McLuhan sul mezzo come “massaggio”).
A complicare la faccenda, dobbiamo considerare che questi piani non viaggiano separati ma sono continuamente intrecciati fra di loro.
Siamo bene al corrente di come sia possibile “forzarne” uno o più d’uno per indurre l’altro a credere qualcosa di “non vero”. Può accadere a livello individuale, per esempio negli episodi (rari) di folie à deux o in quelli (ben più comuni) di alcuni disturbi di personalità in cui uno dei due soggetti è così convincente da indurre l’altro ad adattarsi acriticamente alla propria visione distorta delle cose. Può accadere a livello collettivo, come ci ricorda uno qualunque dei regimi totalitari che ci ha graziosamente regalato il Novecento quando ne studiamo i meccanismi di propaganda e coercizione.
Questi meccanismi, per tornare alla questione aperta nel numero 2 di Asterione, non sono affatto nuovi. Ciò che oggi chiamiamo “fake news”, per esempio, era ben noto ai soliti Greci, i quali, quando posti di fronte al rischio di disinformazione, non la prendevano affatto bene. Racconta Marcel Detienne in “La scrittura di Orfeo”:
Era il 413 a.C., e la potenza militare dell’impero ateniese si avviava verso il disastro della spedizione in Sicilia: la flotta distrutta, i comandanti sgozzati, l’esercito decimato ed i sopravvissuti deportati come schiavi nelle Latomie. Plutarco riferisce che il primo a venirne a conoscenza fu un barbiere del Pireo che l’aveva saputo da uno schiavo sfuggito a quella catastrofe. Il barbiere corse immediatamente in città e sparse la notizia. Panico. Il popolo si riunì in assemblea e convocò il barbiere «cercando di risalire all’origine della notizia» (phème), ma questi non seppe dire il nome del suo informatore e attribuì la notizia ad un «personaggio sconosciuto anonimo». Il popolo, infuriato, lo accusò di essere uno spacciatore di notizie false venuto a turbare l’ordine della città, e pertanto venne torturato fino al momento in cui arrivò la notizia ufficiale che la guerra era stata persa veramente. Il popolo, addoloratissimo, si ritirò piangendo, mentre il barbiere, legato alla ruota, restò solo a riflettere sul capriccio di coloro che vogliono ad ogni costo trovare le false notizie.1
Il ritorno del morbillo e l’urlo della folla
La prima volta che ho scritto qualcosa sulla recrudescenza del morbillo nei paesi più industrializzati è stata nel marzo del 2014 (Measles, the Internet, and the process of believing). Alcuni anni dopo, nell’estate del 2019, mi sono trovato a contatto diretto con l’ambiente No-Vax su Twitter. L’esperienza è stata, non è difficile immaginarlo, insieme sgradevole e istruttiva. Mi si diceva: sì, sono molto rumorosi, ma sono pochi; le loro convinzioni hanno un effetto pratico visibile solo perché, essendo strettamente comunitari e trattandosi di una malattia infettiva contagiosissima, bastano poche “celle” per creare picchi epidemici circoscritti.
Nel frattempo abbiamo avuto la Brexit, Trump alla Casa Bianca e pochi mesi dopo sarebbe arrivato il Covid.
Ci si è resi conto che quei meccanismi psicologici che osservavamo con un certo orrore ma anche forse un po’ col distacco dell’entomologo, si erano insinuati – e radicati molto profondamente – in aree della società civile molto più ampie di quanto sospettato. Come è stato possibile che effetti che in altri tempi avremmo attribuito solo alle complesse macchine propagandistiche dei regimi più criminali si siano sviluppate, inavvertite, in modo spontaneo in una società democratica che immagineremmo dotata dei sufficienti contrappesi?
Tra un periodo imprecisato leggermente anteriore al 2016 e il 2020 si è progressivamente consolidato un rifiuto delle consuete griglie di interpretazione del mondo. Come scrissi nel 2019 in un articolo per l’Osservatore Romano, è emersa una insurrezione nei confronti di tre aree essenziali dell’agire umano:
l’area della Politica, ovvero il mondo del “fare”;
l’area della Scienza, ovvero il mondo del “sapere”;
l’area della Religione, ovvero il mondo del “credere”.
Scrivevo sull’Osservatore (grassetti aggiunti):
I punti di riferimento di una volta (…) vengono aggrediti con sorprendente virulenza; non già per ciò che sostengono, bensì per ciò che rappresentano: l’esistenza stessa di un’autorevolezza, di un’istanza altra che pone limiti all’espansione sempre più autoreferenziale di un “io” individuale. La cifra inquietante di questo conflitto non è quindi la sua intensità né ha a che fare con le posizioni sostenute. La dialettica non è più fra due collettività: è piuttosto fra l’individuale e il collettivo.
In questa nuova dicotomia vengono favorite alcune dinamiche perverse. Innanzitutto, il linguaggio dell’individuo diventa quello dell’urlo: l’atto identitario, autodeterminativo non è più rappresentato dal messaggio (che serve al massimo per “épater le bourgeois”) ma è l’urlo stesso come mera affermazione di sé. Il contenuto, se mai ve n’è uno, è quindi un embrionale “io esisto e sono rilevante” senza ulteriori connotazioni, spiegazioni o ipotesi di sviluppo.
In secondo luogo, l’unica forma aggregativa di un io che non tollera limite, confine, conflitto, è la folla selvaggia: una moltiplicazione di urla tutte uguali in cui amplificarsi ulteriormente e allo stesso tempo nascondersi, omogenea, estemporanea e sussistente solo finché, appunto, canta il medesimo coro.
In questa dimensione primitiva di un io molto bambino, arretrano anche le modalità di ragionamento; la lettura più adulta del reale perde terreno di fronte al pensiero magico e prelogico; l’io (su cui a questo punto influiscono più le pulsioni che l’esame di realtà) si pone al centro dell’universo, diventa sola misura delle cose, giudice supremo di ciò che è buono, vero o giusto. Questa condizione presta facilmente il fianco a manipolazioni, soprattutto quelle che solleticano gli istinti più profondi (prima fra tutti la paura) e che presentano spiegazioni riduzioniste, semplificate, facilmente digeribili; soprattutto, che non compromettano questa posizione privilegiata di un io fin troppo disorientato da un mondo complesso e confuso.
Come siamo finiti qui?
Non nuove, le componenti di questo fenomeno: ciascuna, presa in sé, è spiegabile e riconoscibile in questo o quel periodo storico. Nuova però è la configurazione: sacche di credenze bislacche usualmente confinate a specifiche sottoculture sono diventate mainstream; le modalità di espressione sono aggressive e violente, tanto da incidere su tessuto sociale già abbondantemente sfibrato di suo; la loro diffusione ha creato un meccanismo perverso nei media che, anziché fornire – come sarebbe loro compito – correttivi e contrappesi, cavalcano e amplificano queste “narrazioni alternative”.
Quella di oggi è un’edizione imprevista e improvvisata. A ciascuno dei livelli che ho citato sopra (e ad altri ancora, perché non finisce qui) pensavo di dedicare uno o più numeri di questa newsletter quindi si consideri che sono stato costretto a una estrema sintesi. Nei miei piani, questo sarebbe potuto essere piuttosto un numero riassuntivo a fine discorso. Ma conosco i miei tempi (lentissimi) di scrittura e ho sentito l’urgenza di stabilire, intanto, alcuni punti fermi di fronte all’ennesimo (anche in questo caso non conta quale) episodio di spudorata e vergognosamente compiaciuta disinformazione.
Mi rendo conto che il contenuto di oggi è denso e preferisco quindi fermarmi qui per lasciare a una seconda parte la riflessione su come, probabilmente, la situazione attuale sia l’esito di una “tempesta perfetta” che ha investito contemporaneamente diversi livelli fra quelli sopra menzionati. Seguiranno poi, nel tempo, gli approfondimenti sui diversi, specifici punti.
Grazie per l’attenzione,
Cristiano M. Gaston
Informazioni di servizio
Ho aggiunto una pagina sulla Home del mio Substack per raccogliere i numeri sin qui pubblicati secondo il loro tema principale in modo che chi volesse seguirne in particolare uno può trovare una sequenza relativamente ordinata.
Sono già disponibili due linee di pensiero: “Nuovi paradigmi” e “AI”. Con questo numero inauguro un terzo filone: “Vero e falso”.
Detienne, M., La scrittura di Orfeo, Laterza, 1990, pag. 133.
E ovviamente non possono non venirmi in mente i marziani di Bradbury :)