In una conferenza di una quindicina d’anni fa a Roma, Tommaso Labranca osservava con un pizzico di provocazione come dagli Anni Novanta in poi (almeno sul piano della moda, del costume e della cultura popolare) non fosse cambiato più nulla. Le minigonne, la televisione in bianco e nero, i vitelloni di via Veneto degli Anni Sessanta; i pantaloni a zampa d’elefante, le montature spesse degli occhiali, i parka e le contestazioni dei Settanta; le spalline imbottite e i capelli cotonati, la musica disimpegnata, l’“edonismo reaganiano” e la TV commerciale degli Ottanta: hanno tutti lasciato il posto gli uni agli altri e poi, nei decenni successivi, a una progressiva – se accarezzata da uno sguardo fugace – omogenizzazione visuale.
In assenza di contesto, un film “blockbuster” girato ieri potrebbe essere indistinguibile da uno di dieci o venti anni fa: pressoché immutate le scelte fotografiche e di regia; consolidate le strutture narrative in schemi ripetitivi ma di sperimentato appeal; effetti speciali il cui perfezionamento è percepibile solo nei più minuti dettagli; persino gli attori – complici il trend salutista e qualche più o meno fortunato ritocchino – sembrano aver smesso di invecchiare.
Si direbbe che negli ultimi trent’anni non sia successo nulla di particolarmente rilevante, almeno sul piano culturale. Eppure, al contrario, proprio questi ultimi sono stati i decenni in cui alcune tecnologie sono esplose o hanno subito accelerazioni esponenziali.
Nel 1994 emette i primi vagiti il Web; pochi anni dopo emerge prepotente il fenomeno dei blog, prima vera forma di self-publishing di massa; nel 2003 nasce MySpace, nel 2004 Facebook, nel 2006 Twitter; nel 2007 esce l’iPhone e nel 2012, a soli otto anni dalla fondazione, Facebook oltrepassa la soglia del miliardo di utenti.
Per tornare all’esempio precedente, il tecnofilo saprà identificare non già il decennio ma l’anno esatto in cui è stato girato un film a seconda del modello di smartphone, del social network, delle modalità di trasmissione che il personaggio ha a disposizione. Tutti strumenti o funzioni altamente sofisticati ma allo stesso tempo di massa; tutti strumenti o funzioni dedicati alla comunicazione.
Abbiamo quindi lo stesso paio di scarpe ai piedi di vent’anni fa ma un telefono più evoluto di quello dell’anno scorso. E pensiamo di farci sempre le stesse cose, ma non è così: a ogni iterazione c’è un piccolo cambiamento, un’aggiunta marginale che però conquista spazio nella nostra vita, si infila in un equilibrio sempre più complesso ma anche invisibile perché gestito (con grande attenzione) da altri. A dispetto di quanto fin qui affermato, siamo bombardati dalle novità; molte di esse però durano lo spazio di una stagione: giusto il tempo di verificare il loro successo in un mercato il cui prodotto è la nostra attenzione. Altre, le sopravvissute, provocano piccole o grandi scosse di assestamento in un mondo che riposa su una faglia in perenne e vibrante attesa della “Big One” (o, in altri termini, della disruption definitiva, la “Next big thing”).
Occorre, per capire il nostro tempo (il modo in cui lo viviamo e anche il modo in cui oggi ci ammaliamo), porsi una domanda: quanto e cosa di ciò che vediamo è “nuovo”? Intendendo con nuovo, qualcosa:
di cui non conosciamo ancora con sufficiente profondità le implicazioni, i meccanismi, le possibilità;
che in virtù del punto precedente possa introdurre cambiamenti strutturali e radicali nella nostra mentalità e nel nostro modo di vivere nel mondo e con gli altri;
che rischiamo di identificare come già noto e quindi di interpretare in modo drammaticamente errato;
che va distinto da ciò che invece, più frequentemente, assume forme nuove ma risponde a dinamiche che ci accompagnano da secoli, a volte da millenni, e che semplicemente si adattano ai tempi.
Il crinale – ci è di monito Paolo Rossi – è scivoloso:
Ci sono stagioni o momenti che appaiono a coloro che li vivono come radicalmente nuovi. Sono assai meno numerosi di quanto non credano i fanatici delle novità che, per interpretare i processi storici, fanno uso delle stesse categorie che impiegano gli organizzatori delle sfilate dell’alta moda. Ma se è vero che una parte del nuovo deriva dai modi delle ricombinazioni, è anche vero che una parte deriva dalla comparsa di cose che prima non c’erano, che sono state “create” da cervelli umani e che - nelle civiltà “calde” che hanno rifiutato di considerare l’immobilità come un valore - si affacciano al presente (a ogni presente) per la prima volta.
(…)
I tentativi di tracciare linee di demarcazione devono essere sempre condotti con grande cautela. Ma una cosa è affermare questo e combattere le rozze contrapposizioni, e tutt’altra cosa è accettare l’idea “continuista” secondo la quale non ci sono mai state rivoluzioni e (tanto per fare un esempio) non si dovrebbe più parlare (relativamente al periodo al quale mi sono qui riferito) di rivoluzione scientifica.
Prendendo in prestito il linguaggio della filosofia della scienza, c’è da chiedersi dunque se alcune di queste novità non rappresentino un incipiente (se non già avvenuto) cambio di paradigma (in senso kuhniano). Ovvero se i nomi che diamo a certe cose, le metafore con cui le rappresentiamo in assenza di categorie adeguate, non appartengano a una mentalità inadeguata che non ha ancora tenuto conto di cambiamenti avvenuti sotto la superficie.
Nomi e metafore, dunque: il cambio di paradigma (per restare con Kuhn) che avviene quando la Luna da pianeta diventa satellite e il Sole a sua volta semplicemente “una” stella, ad esempio, ha a che fare coi nomi e con la nostra interpretazione di quegli oggetti, ma lascia invece indifferenti Sole e Luna, che persistono nella loro indipendente immanenza.
Ma quando parliamo di “desktop”, “chat”, “social”, “mail”, di oggetti cioè interamente digitali e artificiali, il nome è sempre una metafora (e un descrittore): necessariamente, perché deve ancorare quell’oggetto virtuale a una corrispondente immagine fisica che ci aiuti a rappresentarlo e comunicarlo. Può avvenire che l’oggetto virtuale si sganci dalla propria metafora tanto da farle perdere senso, senza che ce ne accorgiamo? E cosa succede se continuiamo a usare una metafora che ha perso la propria corrispondenza?
Non ho la presunzione di avere la risposta a queste domande ma proverò, nei prossimi numeri, a elaborare alcune riflessioni.
Grazie per l’attenzione,
Cristiano M. Gaston
Bibliografia essenziale
Alcuni testi citati, cui ho fatto riferimento in modo indiretto o che semplicemente consiglio per l’argomento di questo numero:
Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, 1969
Paolo Rossi, Il tempo dei maghi. Rinascimento e modernità, Milano, 2006
Tim Wu, The Attention Merchants, New York, 2016
La storia della foto di F. B. Johnston è tratta da: Alfred A. Blaker, Fotografia, arte e tecnica, Bologna, 1985
Suggestioni
Stephen Shore:
Today people look at the pictures… I read some people writing about they like it, because they’re nostalgic… well what my motel room looked like in 1974 looks nostalgic today but in 1974 it didn’t look nostalgic at all… and people, some people, would kind of wonder: “This just looks like what things look like then”, I’d say: “Yes that’s the idea…”