“Is the Internet changing the way you think?”
Questa domanda è stata posta nel 2010 ai membri della Edge Foundation, che raccoglie scienziati, filosofi, artisti, manager, giornalisti e altre personalità appartenenti agli ambiti più disparati (tra gli altri – per dare un’idea – Albert-László Barabási, Douglas Coupland, Mihaly Csikszentmihalyi, Richard Dawkins, Brian Eno, Howard Gardner, Marissa Mayer, Tim O’Reilly, Larry Sanger, Nassim Taleb e Ai Weiwei).
Le risposte, come prevedibile, si dispiegano lungo tutta la gamma compresa tra l’entusiasmo e la preoccupazione. È lo stesso anno in cui, del resto, escono da una parte “Cognitive surplus: Creativity and generosity in a connected age” di Clay Shirky e dall’altra “The Shallows: What the Internet Is Doing to Our Brains” di Nicholas G. Carr (non a caso sono loro le prime due risposte inserite nel volume).
Presentate con un taglio ottimista o pessimista, le riflessioni vertono però tutte più o meno sugli stessi argomenti:
il numero di informazioni disponibili, cresciuto esponenzialmente
il cambiamento delle abitudini collegate al reperimento di queste ultime
le connessioni sociali, moltiplicate per quantità e per velocità di interazione
la soglia di attenzione, modificata dal bombardamento di nuovi stimoli
le tecnologie che presto o tardi diventeranno obsolete e le possibilità introdotte da quelle che le sostituiranno
Il filosofo Andy Clark si pone una questione più generale (corsivi miei):
How is the Internet changing the way I think? There is something tremendously slippery (…) about this question. To see what it is, reflect first that the question has an apparently trivial variant: (…) “Is the Internet changing the nature of your thinking?” It’s this question, I suggest, that divides the bulk of the respondents. There are those who think the nature of human thinking hasn’t altered at all and those who think it is becoming radically transformed. The question I want to ask in return, however, is simply this: “How can we know?” I don’t think this question has any easy answer.
Purtroppo, conclude:
Deep down, I suspect that our two interrogative options – the trivial-sounding question about what we think and the deep-sounding one about the nature of our thinking – are simply not as distinct as the fans of either response (Yes, the Internet is changing the way we think/No, it isn’t) might wish.
But I don’t know how to prove this.
Dammit.
Il sogno di Armageddon
“A dream of Armageddon” di H. G. Wells viene pubblicato per la prima volta nel 1901: un uomo incontrato in treno racconta al proprio interlocutore – voce narrante – di vivere una seconda vita in sogno. In questa diversa esperienza si trova in un altro ruolo, un altro luogo e un’altra epoca: un futuro imprecisato pieno di tecnologie straordinarie. Descrive al suo compagno di viaggio nuovi, potentissimi velivoli da guerra, ma realtà e sogno si confondono e la memoria inizia a frammentarsi:
“Com’erano?” chiesi.
“Non avevano mai combattuto, - disse. - Proprio come le corazzate che abbiamo adesso, non avevano mai combattuto. Nessuno sapeva di che cosa potessero essere capaci con degli esaltati a bordo, e pochi si preoccupavano di pensarci. Erano grandi oggetti affusolati a forma di punte di lancia prive di asta, e al posto dell’asta avevano un’elica”.
“D’acciaio?”
“No, non era acciaio”.
“Di alluminio?”
“No, no, nulla del genere. Era una lega molto comune a quel tempo, come l’ottone per esempio. Si chiamava... vediamo... - si premette la fronte con le dita di una mano. - Sto scordando tutto”, disse.
Nel dover immaginare gli aerei del futuro, Wells ne stravolge le forme; descrive “enormi macchine” con “esplosivi terribili” e sempre più “grandi cannoni”. L’apice della loro tecnologia è rappresentato da un materiale così sofisticato che le sue qualità sono lasciate alla fantasia del lettore. Un materiale che, di quell’arma modernissima, compone le eliche. Wells infatti, per quanto libero da ogni obbligo di realismo, non riesce a pensare a un aeroplano senza elica.
Torniamo a Thomas S. Kuhn, che ho menzionato nel numero precedente:
Si considerino, ad esempio, coloro che diedero del matto a Copernico perché egli affermava che la terra si muoveva. È falso dire che avevano torto completamente o che avevano torto in parte. Ciò che essi indicavano col termine “terra” era, fra l’altro, la posizione stabile. La loro terra, quindi, non poteva essere mossa. D’altra parte l’innovazione di Copernico non consistette semplicemente nel far muovere la terra. Era piuttosto un modo completamente nuovo di considerare i problemi della fisica e dell’astronomia, che necessariamente cambiava il significato di entrambi i termini, “terra” e “moto”. Senza quei cambiamenti, il concetto di terra in movimento era una pazzia.
La maggior parte dei brani di “Is the Internet changing the way you think?” sembra interrogarsi su come Internet abbia cambiato non il modo di pensare ma quello di operare e su come la nostra modalità di pensiero si sia adattata – per quanto non senza problemi – alla gestione di sempre più informazioni, connessioni, velocità.
Capire il dentro osservando il fuori
Ma come possiamo distinguere una trasformazione sostanziale da un mero adattamento? Per uscire dallo stallo di un pensiero costretto a riflettere su se stesso, occorre rinunciare a una posizione introspettiva e chiedersi piuttosto se non sia cambiata la relazione che il nostro pensiero ha con il mondo. Per rispondere alla domanda originale quindi dobbiamo porci un altro quesito: è cambiato il nostro rapporto con la realtà?
Dobbiamo anche abbandonare un esame meramente quantitativo (quanti dati, quante informazioni, quante ore online, quanti contatti) per cogliere quelle che sono, eventualmente, nuove configurazioni.
In “La vita sullo schermo” del 1996, Sherry Turkle affronta questioni quali identità, personalità online, corpo e sesso in rete, perdita del rapporto col reale, intelligenza artificiale, depressione. Questi temi si riferiscono a una Rete molto diversa da quella di oggi: il Web è appena uscito dai laboratori del CERN, dei social come li consideriamo adesso non c’è ancora neanche una pallida traccia e la realtà virtuale di cui si parla non è quella tridimensionale, immersiva e ad alta definizione dell’ultimo Oculus ma l’esperienza esclusivamente testuale dei MUD (i “Multi-User Dungeon”), delle chat via irc, dei gruppi Usenet e delle BBS.
Eppure, anche solo a scorrere l’indice, ci si rende conto di come essi siano persino più attuali oggi che allora (e largamente irrisolti). Com’è possibile che Turkle vedesse così distintamente già nel ’96 situazioni che oggi sembrano evidenti ma che all’epoca erano circoscritte a gruppi di utenti relativamente ristretti? Non è cambiato quindi nulla da allora? Oppure è una mera questione di scala di grandezza?
Sulla base di quanto scritto fin qui cercherò nel prossimo numero di spiegare come mai secondo me: sì, è cambiato qualcosa e no, non è solo una questione di scala. Andremo quindi alla ricerca di quegli elementi qualitativi che determinano una nuova configurazione del rapporto che abbiamo non più con la macchina ma, attraverso la macchina, con il Mondo e con l’Altro.
Grazie per l’attenzione,
Cristiano M. Gaston
Bibliografia essenziale
I testi citati in questo numero:
John Brockman (a cura di), Is the Internet changing the way you think?, New York, 2011
I testi che hanno dato vita al volume sopra citato sono disponibili (in versione non esattamente corrispondente al libro) all’indirizzo https://www.edge.org/responses/how-is-the-internet-changing-the-way-you-think
Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, 1969
H. G. Wells, Il sogno di Armageddon, pubblicato ne La porta nel muro e altri racconti, Torino, 1992
Sherry Turkle, La vita sullo schermo, Milano, 1997
Suggestioni
Uno spettacolare esperimento del NYT che usa l’AI per sposare l’estetica di Tron con il mai prodotto Dune di Jodorowski. Ecco come sarebbe il “Tron” di Jodò.
A skeptical take on the A. I. Revolution: Ezra Klein intervista Gary Marcus sulle reali capacità di ChatGPT. Una discussione chiara e molto pertinente, assolutamente da non perdere.
CNet sta pubblicando da novembre articoli scritti dall’AI. Un’analisi di Gael Breton.