Alcuni giorni fa mi sono trovato coinvolto mio malgrado in una discussione molto virulenta.
Tutto è partito da un commento a un commento nidificato a propria volta in un thread su Twitter senza troppe ambizioni (su uno specifico argomento e con una sola tesi molto circoscritta) cui è seguita una serie di sfide all’OK Corral e una disordinata canizza in cui si è finiti a dibattere molto confusamente de La vita, l’Universo e Tutto Quanto. Poco conta oggi l’oggetto del contendere: mi interessa invece mettere in evidenza i rischi connessi ad alcune abitudini che si sono recentemente consolidate a prescindere da questo singolo episodio.
Nuove forme di divulgazione
Il lockdown ha accelerato l’esplosione di alcuni strumenti che erano riservati a più specifiche nicchie: Zoom è uscito dalle segrete stanze della comunicazione inter-aziendale così come Twitch da quelle dei gamers; sono fioriti strumenti di interconnessione (Streamyard etc.) capaci di mandare il feed verso più canali e di gestire commenti, ospiti, spettatori in modo facile ed estemporaneo; un’utenza ritenuta generalmente impaziente (anche giovane o giovanissima) si è adattata molto velocemente alla fruizione di contenuti video lunghi diverse ore.
Sono diventati via via popolari canali (molto eterogenei fra loro, quindi sia chiaro che vanno evitate generalizzazioni) orientati alla divulgazione in varie forme, inclusa quella della presenza in diretta di ospiti. Molti di questi hanno una più o meno articolata rete di comunicazione: un sito web, uno o più account social, un podcast, un canale Discord, una serie di servizi a pagamento fino ad arrivare in alcuni casi a un vero e proprio merchandising. Intorno a queste costellazioni si muovono sempre vibranti communities in cui lo spettatore è anche in qualche modo coautore (attraverso i commenti live alle dirette, per esempio).
Tutto ciò non è in sé né un bene né un male. Da molti punti di vista anzi direi che è un bene: innanzitutto perché il più delle volte le intenzioni di chi anima queste iniziative sono lodevoli; in secondo luogo perché esse sono in grado di raggiungere un pubblico che generalmente sfugge a canali più tradizionali e che non si accontenta della pillola ipercompressa di TikTok. Parliamo quindi di un’utenza provvista di un autentico desiderio di approfondimento nonché di disponibilità a trovarsi di fronte a panorami complessi che invitano a ragionare e a porsi questioni.
In virtù dell’approccio informale, dell’esposizione comprensibile di contenuti considerati ostici, della disponibilità a spiegare antefatti e contesti cui i più giovani hanno accesso solo attraverso uno studio più polveroso, bisogna prendere atto che oggi alcune fasce di popolazione hanno eletto questi specifici outlet a loro primaria fonte di informazione e – di riflesso – di formazione culturale.
Ogni opportunità porta con sé però anche la propria dose di rischi ed è imperativo – nel mondo di oggi così interconnesso e così vulnerabile alla disinformazione – un continuo sforzo di discernimento. In questo numero, come da titolo, mi limiterò a una sola fattispecie: il famigerato dibattito.
Non è sempre ovvio tutto quel che è ovvio
Da esseri parlanti quali siamo, tendiamo a dare la comunicazione interumana per scontata. Riteniamo così che la frase “Sono Gloria, ho lasciato le chiavi sul tavolo accanto alla frutta” sia indiscutibilmente chiara. Gloria è Gloria, le chiavi sono sul tavolo e chi ascolta sa anche di quali chiavi e di quale tavolo sta parlando Gloria. Nella vita di ogni giorno questo insieme di assunzioni rende la comunicazione molto efficiente e le piccole incomprensioni che si possono creare sono facilmente risolvibili con qualche chiarimento.
Prima, dopo, dentro e intorno a questa comunicazione si muovono in realtà dinamiche, significati, funzioni complicatissimi che esulano dallo scopo di questo numero1. Non parlerò quindi oggi né di linguistica2 (cioè di come funziona la lingua) né di psicodinamica ad approccio relazionale3 (cioè di cosa succede in un sistema quando la comunicazione è patologica).
Mi basta evidenziare che ogni volta che c’è una comunicazione esiste intrinsecamente la possibilità di un fraintendimento.
Parlare la stessa lingua
Un gruppo di lavoro è un gruppo che si è costituito per risolvere un problema. È buona prassi, fra le varie operazioni che il gruppo deve fare su se stesso mentre persegue questo obiettivo, procedere prima possibile alla cosiddetta “costruzione del problema”4. Attenzione, la scelta del termine “costruzione” (e non comunicazione, spiegazione etc.) non è casuale: ogni membro del gruppo – per il solo fatto di appartenervi – ha già una propria idea del problema. Perché si collabori sullo stesso problema e non sull’idea che ciascuno si è fatto di esso, occorre un lavoro attivo di confronto, contrattazione, decodifica5 e riconfigurazione il cui prodotto sarà qualcosa di simile al problema originale ma anche di un po’ diverso. Sarà, insomma, una cosa nuova ed emergente dal gruppo stesso.
Due oratori che si confrontino su un tema non sono un gruppo di lavoro, ma devono analogamente assicurarsi di “parlare della stessa cosa”. Il medesimo termine può avere significati o sfumature di significato molto diverse a seconda del campo del sapere in cui viene contestualizzato. In psichiatria ad esempio (quindi addirittura nello stesso campo), il termine “empatia” indica cose piuttosto distinte se si fa riferimento all’approccio rogersiano o a quello fenomenologico6. Occorre insomma, parafrasando, una “costruzione dell’argomento”.
Bisogna anche essere consapevoli che alcuni termini (“genocidio”, “nazismo”, “gender”, “nucleare” etc.) sono particolarmente carichi emotivamente sia per chi parla che per chi ascolta, per cui la loro sola pronuncia attiva subito meccanismi psicologici violenti che premono il piano della discussione verso un livello più irrazionale. Non dico che non li si debba usare – anzi! – ma che li si debba usare con questa consapevolezza (evitando per esempio una troppo frequente reductio ad hitlerum che viene calata come una briscola per potenziare un argomento fragile e mettere una zeppa negli ingranaggi del discorso).
Quousque tandem…
Quanto detto finora presuppone che i due parlanti si incontrino per capirsi in buona fede, sinceramente interessati a confrontare le proprie visioni e disponibili sia a spiegarle che a mutarle.
Al di là delle intenzioni, non è mai così (o non è mai così completamente). L’atto del parlare è intimamente connesso (per quanto non si esaurisca in esso) a quello del convincere e l’oratoria ha sempre accompagnato all’esercizio della chiarezza e della comprensibilità l’obiettivo di vincere un confronto dialettico.
Nel momento in cui due posizioni non si confrontano ma si scontrano di fronte a un terzo (l’Agorà, i senatori, gli elettori, i telespettatori etc.), la dialettica fra i due parlanti muta drasticamente giacché si parla all’altro per parlare, in realtà, al terzo. Alla capacità argomentativa si aggiungono elementi comunicativi completamente indipendenti dal contenuto: in particolare la simpatia (il fascino, la capacità seduttiva, l’induzione all’immedesimazione etc.) e l’autorità (il ruolo riconosciuto, il credito di fiducia guadagnato in precedenti esposizioni etc.)7.
I seduttori di folle – ultima degenerazione di questo stile comunicativo – puntano sempre su atti performativi più che informativi: dalla raffinata eleganza dell’eloquio del retore (“Friends, Romans, countrymen…”) si passa a una mimica teatrale o gigiona, un eloquio sincopato, l’uso di concetti scarni ma fortemente suggestivi, un sapiente uso delle pause, il totale disinteresse per la “realtà” delle proprie affermazioni etc.
Il dibattito in quanto tale, in sintesi, non garantisce affatto quindi che vinca l’argomento più convincente: al contrario è probabile che vinca l’argomento più convincentemente presentato.
La pancia
Per quanto in una certa misura sempre presente, esiste poi una protagonista poco visibile che si affaccia con sempre maggiore prepotenza nelle nostre interazioni: la pancia.
Nel 2020, il giornalista Allan Piper ha condotto con pazienza e precisione una trasmissione per la testata online NowThis che seguiva tutti i dibattiti di Trump. In diretta, in sovraimpressione al feed originale, Piper faceva il fact-checking delle affermazioni di Trump. Vista la mole di “frasi pronunciate non rispondenti al vero”, la sovrapposizione della voce di Piper, che restituiva le informazioni corrette, era incessante. Anche in questi giorni molte testate USA insistono sulla contabilità delle “bugie” pronunciate da Trump nel primo dibattito della campagna presidenziale del 2024, dibattito in cui l’avversario è stato – è ormai opinione unanime – letteralmente sbriciolato. Senza capire che il punto non è lì e non è mai stato lì – non almeno per chi vota da quella parte.
Esiste in psichiatria una condizione rara chiamata folie à deux: in una coppia costituita da uno psicotico delirante e da una persona sostanzialmente sana, il potere persuasivo del primo nei confronti della seconda è tale da portare quest’ultima ad assorbire completamente i suoi temi deliranti. Più comunemente, le personalità manipolative e narcisiste riescono a imporre all’altro le interpretazioni dei fatti più assurde (che generalmente attribuiscono alla vittima l’origine di tutti i problemi sollevando il manipolativo da ogni responsabilità mentre sguazza allegramente e sadicamente nell’altrui dolore). Questo potere persuasivo non è logico né argomentativo: è una questione di postura, di granitica convinzione, di impermeabilità, di rigidità, di aggressività, di potere. È così violento e incomprensibile da non essere decodificato come tale (“È possibile che direbbe una cosa così grave se non fosse vera? Credo piuttosto a quel che mi dice”).
Ci piace crederci esseri razionali, ma è una presunzione totalmente sbagliata: siamo prima creature impulsive ed emotive e solo dopo – molto dopo – giunge la razionalità a diradare qualche foschia. E in un conflitto fra le due, laddove la pancia abbia esigenze inderogabili (paure, angosce, istinti, traumi, minacce reali o immaginarie e anche – alla sua maniera – visioni del mondo), la ragione le cede umilmente il passo.
La rissa
Non credo occorra spendere molte parole sul fatto che siamo passati dalle paludate Tribune Elettorali degli Anni Settanta alle zuffe televisive più disarticolate. Come ci siamo passati è argomento affascinante ma esula decisamente dai nostri scopi. In breve, già prima della diffusione dei social il pubblico era pronto a recepire con gusto lo scontro, l’umiliazione dell’avversario, l’identificazione manichea di un “cattivo” sul quale scaricare l’aggressività senza sentirsene colpevoli8.
I social intensificano queste pulsioni attraverso dinamiche che – anch’esse ohimè – esulano dai limiti di questo numero ma che credo siano ormai in buona parte intuibili.
Il pubblico
Arriviamo all’ultimo protagonista di questo elenco, che avrebbe meritato di essere in realtà il primo: il destinatario di tutto ciò. In un’epoca di informazione “elettrica”, per dirla con McLuhan – in cui tutto arriva a tutti in un istante – i confini e i limiti della nostra azione diventano sempre più sfuggenti.
Si è amplificata in modo esponenziale la divaricazione tra il mondo di incidenza9 (ovvero la parte di mondo su cui un’azione ha un effetto), e mondo di osservazione (la sua parte direttamente visibile). Ritenere, quando si pubblica un video – soprattutto se polarizzante – che i due coincidano è molto naïf.
Esiste un insieme di scatole cinesi lungo le quali si dispiega un incontrollabile ripple effect: si immagina, magari, che il pubblico (il “proprio” pubblico) sia costituito dai solo abbonati di un canale a pagamento o dagli iscritti. Questo pubblico è così ben delimitato da poter essere anche contato numericamente. Si ha sempre l’ambizione di giungere ad altri però, e va quindi previsto il gruppo delle persone che guarderanno il video attraverso canali esterni: l’embedding in pagine di cui non conosciamo l’esistenza, il link su social di ogni genere etc.: questo è un pubblico che si può mettere in conto ma che già inizia a diventare impreciso (molto orientato, fra l’altro, dalle decisioni esoteriche degli algoritmi).
Se il video genera “scandalo” però, diventerà esso stesso la notizia e inizieranno a diffondersi estratti, spezzoni, fotogrammi e a fiorire commenti con velocità accelerata. Questa seconda vita di un prodotto nato in origine con una ambizione informativa o culturale è incompatibile con le intenzioni originarie: il numero di persone che lo vedranno effettivamente e per intero diminuirà proporzionalmente sempre più e questa nuova cerchia estesa discuterà violentemente solo su quello che sa o ritiene di sapere a proposito di un dibattito cui non ha assistito attingendo, inevitabilmente, ai propri pregiudizi o a giudizi formulati altrove. Da questo punto in poi l’unica cosa che resta è l’esposizione, cosa che ben sanno sfruttare i polemizzatori professionisti – già nei media tradizionali – che cercano contatti, audience, indici di ascolto, engagement, vendite.
Questa è una scelta etica ben precisa e il fatto che non si sappia dove andrà una tigre appena liberata non solleva minimamente chi ha aperto la gabbia dalla responsabilità dei propri atti.
No, il dibattito no!
Torniamo al nostro titolo. Lungi da me l’intenzione di sottovalutare la necessità di un sano dibattito nello spazio sociale (dove per “sano” intendo dotato di una preparazione e moderazione forti, capaci di attenuare tutti i rischi sopra elencati). Il dibattito e la retorica sono anzi strumenti essenziali dell’agire politico – ma non è un caso che tradizionalmente la moderazione venga affidata a un professionista dell’informazione (che poi, nella prassi, lo si faccia meglio o peggio è un’altra questione).
L’uso di questo strumento per “capire le idee dell’altro” o “convincere un pubblico” attraverso un confronto vivace sulla veridicità e verificabilità di ogni affermazione – soprattutto su temi molto “caldi” – ospitato dai nuovi media mi lascia invece molto perplesso.
Preferisco, al dibattito, il dialogo: una dimensione non caratterizzata dal batti-e-ribatti ma da un atteggiamento di autentico ascolto, dalla domanda maieutica piuttosto che capziosa, dall’emancipazione dal giogo della vittoria dialettica. Nel dibattito non si conosce l’Altro.
Il primo laboratorio aperto dall’associazione in cui lavoro da oltre 25 anni e che chi mi segue avrà probabilmente sentito nominare, è stato il cosiddetto “Lab O’Connor”. Dalla pagina del Lab si legge:
Ognuno porta un brano di narrativa o poesia. Durante l’incontro ciascuno legge il testo portato e lo commenta per non più di 5/6 minuti, per poi lasciare spazio alle reazioni degli altri. Chi ha portato il testo perde il “diritto di replica” sui commenti altrui.
Nel laboratorio tutti possono parlare, ma nessuno può ribattere: è proibito proprio il dibattito. Le ragioni sono spiegate nella descrizione del metodo:
Un secondo motivo è perché richiede una buona capacità di ascolto e dialogo, e allo stesso tempo la sviluppa e la raffina. Il poco tempo a disposizione di ognuno fa sì che non ci sia spazio per protagonismi e interpretazioni che soverchiano il testo, ma permette al testo stesso di esprimersi con tutta la sua nuda potenza, o vuota debolezza (ogni tanto accade). Nel momento in cui si discute un testo, colui che l’ha proposto, non avendo diritto di replica ai commenti fatti dagli altri, ha il vantaggio di poter assistere a una discussione da lui sollevata ma non controllata né dominata. In questo modo accade che siano quasi i testi a dialogare tra loro, e non le persone che li hanno proposti: l’immagine che compare in un brano può ritornare in un altro con un significato o una forza espressiva diversa, due brani possono “parlare” della stessa cosa ma – messi a confronto in modo così diretto – provocare reazioni completamente opposte. E confrontarsi su queste reazioni è decisamente stimolante.
Questa semplice indicazione è in realtà molto difficile da seguire per i nuovi partecipanti che malvolentieri accettano (a volte rendendosene conto solo in quel momento) la frustrazione di non poter controbattere. Ma appena si abbandona questa prospettiva, si apre uno spazio nuovo, imprevisto e sorgente di molte cose inattese.
Grazie per l’attenzione.
Cristiano M. Gaston
Riprendono con questo numero le pubblicazioni di Asterione che si erano interrotte, banalmente per mancanza di tempo, all’inizio dell’anno. Insomma, sono sempre qua ma purtroppo questo spazio resta subordinato agli impegni della vita.
Di solito allego alla fine di un articolo una bibliografia consigliata, scelta con l’intenzione di fornire al lettore testi di certo spessore culturale ma anche di facile accessibilità (o almeno non proprio impervi). Oggi, per una serie di ragioni su cui non mi dilungo, ho voluto essere un po’ più specifico nei riferimenti bibliografici (che è anche il motivo di un ricorso superiore al consueto delle note a piè di pagina) e avverto quindi che il grado di tecnicità dei testi consigliati è molto variabile.
Ci vediamo presto! (spero)
Si pensi solo al fatto che, per esempio, chi ha riconosciuto la citazione ha un livello di lettura e interpretazione che gli altri non hanno.
Il tema è sconfinato e alcuni autori particolarmente ostici, per cui non posso che consigliare un manuale generale senza peraltro dimenticare che andrebbero considerati anche i campi affini ma distinti della semeiotica, della logica e della filosofia del linguaggio.
Un’introduzione in questo campo è l’intera opera di Paul Watzlawick, dal più tecnico Pragmatica della comunicazione umana al prezioso Change o al più giocoso ma brillantissimo Istruzioni per rendersi infelici.
Vedi Quaglino et al., Gruppo di lavoro, lavoro di gruppo.
La decodifica più importante, ma anche la più complessa, è quella delle aspettative psicologiche, consce o inconsce, che riversiamo sul problema: cosa significa per noi, cosa speriamo di ottenere risolvendolo. Le motivazioni inconsce sono potenti motori che, se non opportunamente considerati, possono portare molto fuori strada.
E io sono sfacciatamente di parte, si veda E. Stein, L’empatia.
Si vedano Cialdini, Le armi della persuasione o Fogg, Tecnologia della persuasione, quest’ultimo specificamente orientato alla comunicazione digitale.
Su rapporto tra polarizzazione e senso di giustizia si veda Haidt, The Righteous Mind. Why Good People are Divided by Politics and Religion.
Si veda Apel, Etica della comunicazione.
Da diverse settimane, sentivo di avere bisogno di ascoltare (e riflettere, con calma) più che di parlare o dire qualcosa. Asterione non poteva tornare in un momento migliore: grazie per aver fatto lo sforzo di sviscerare il problema in modo tanto chiaro: è una mappa preziosa per chiunque voglia parlare di argomenti complessi in rete.