Per quanto Asterione sia ancora – allo stato presente – un progetto personale, la sua vocazione è sin dalla fondazione quella di pensarsi immerso in una rete di relazioni e confronto.
Dopo aver delineato alcuni orientamenti di base nel corso degli ultimi dieci mesi e undici numeri, è finalmente giunto il momento di fare un nuovo passo in questa direzione. Inauguriamo quindi oggi la presenza occasionale di guest posts con un articolo di Greta Giglio. Buona lettura!
—C. M. Gaston
“La vita è fatta di piccole solitudini” scriveva Roland Barthes in La camera chiara, iniziando le sue riflessioni sulla fotografia. Piccole solitudini che, nel nostro odierno mondo iper-connesso sono continuamente condivise con milioni di persone. Secondo l’ultimo aggiornamento di DataReportal, gli utenti di Internet del 2023 risultano 5,16 miliardi nel mondo; di questi, 4,76 miliardi usano i social media: oggi è quasi impossibile “essere” soli, eppure questo non ci esime dal sentirci soli.
Se Internet permette di entrare in contatto con gli altri, lo fa tuttavia in modo diverso da quanto avviene al di fuori di essa, al punto che occorre distinguere generalmente tra “luogo reale” e “ambiente digitale”; la comunicazione nell’uno differisce da quella nell’altro per vari fattori: il rapporto tra gli interlocutori, il contenuto dei messaggi, il linguaggio usato, le intenzioni e i motivi per cui si sceglie e si predilige l’ambiente digitale al reale. Eppure gli interlocutori sono sempre umani (almeno finché non entrano in gioco bots e intelligenze artificiali), i linguaggi sono umani (scrittura, simboli, immagini) e anche le intenzioni dovrebbero esserlo: non è forse l’uomo un animale sociale?
C’era una volta una realtà
Come ha scritto Susan Sontag, “le fotografie sono forse tra i più misteriosi tra gli oggetti che formano, dandogli spessore, quell’ambiente che noi definiamo moderno”; e, se accanto all’ambiente “reale” moderno vive quello digitale, appare fondamentale esplorare il ruolo della fotografia anche in quest’ultimo, poiché è l’immagine che ci permette di entrare in contatto, decodificare e infine rappresentare il mondo: un mondo che all’inizio – con lo sviluppo delle macchine fotografiche – era il mondo di tutti e che oggi, grazie alla facilità con cui si utilizza una fotocamera, è il mondo di ognuno.
Da quando è nata nel 1839, la fotografia sembra aver catturato col suo occhio – analogico prima, digitale dopo – quasi tutto. C’è nell’essere umano un bisogno di perseverare nel tempo, forse proprio in virtù della propria finitezza, e l’immagine fotografica appare come il mezzo più efficace per garantire tale continuità: si fotografa per lasciare traccia di sé, di ciò che si è visto, e di ciò che si è vissuto. Le fotografie, insomma, sono esperienza catturata e, se fotografare è un’esperienza, il suo significato e il suo valore cambiano col cambiare dell’essere umano.
La fotografia non nasce con valenza artistica – o, meglio, si inserisce sull’onda di un’arte ben consolidata dai secoli, la pittura, e ai suoi esordi vive come ancella di questa; tale connubio “inevitabilmente porterà ad una serie di atteggiamenti equivoci, ancor oggi presenti, che consistono principalmente nell’ottenere con il mezzo fotografico esiti pittorici”1.
Ma la fotografia è altro rispetto all’arte pittorica: tra meccanica, ottica, chimica, litografia e dagherrotipia, essa sembra assomigliare più a una scienza che a un’arte; liberatasi col passare del tempo dalla dipendenza con la pittura, essa scoprirà una propria dimensione, prima fra tutti quella della documentazione della realtà, prezioso strumento per lo sviluppo del giornalismo e del reportage a fine Ottocento.
La fotografia si presenta anche, fin da subito, come uno strumento “schierato dalla parte della democrazia, perché consentiva ai più di fissare la propria immagine e di trasmetterla”2 come prima poteva essere concesso solo ai “grandi” della storia: dall’invenzione della fotografia chiunque può lasciare traccia visibile della propria presenza nel mondo, e continuare così a farne parte.
Col passare del tempo e con lo sviluppo delle prime riflessioni sulla fotografia, la realtà la cui esistenza prima sembrava “provata” dalla sua riproduzione fotografica viene messa man a mano in discussione. Si pensi ad esempio alla foto che diventerà l’immagine simbolo della presa di Roma e dell’Unità d’Italia, scattata alla vigilia della presa di Roma dal fotografo Gioacchino Altobelli nei pressi di Porta Pia; eppure questa foto non nasce da un momento reale della battaglia, ma è una ricostruzione a posteriori (lo scatto risale al 21 settembre 1870): il fotografo non si limita a mettere in posa i soggetti e ad arrangiare la scena (ad una cinquantina di metri da porta Pia, dove avvenne effettivamente la battaglia), ma aggiunge anche i fori del cannoneggiamento. Il falso storico-fotografico serve così per rappresentare la realtà – molto più concreta – dell’Unità d’Italia.
Sguardi diversi, realtà diverse
Joel Sternfeld (cui si è fatto cenno nel n. 6 “Stable Confusion”) fa un uso della fotografia profondamente consapevole; in un’intervista al Guardian ha definito la fotografia come un medium “meraviglioso e problematico”:
Photography has always been capable of manipulation. Even more subtle and more invidious is the fact that any time you put a frame to the world, it’s an interpretation. I could get my camera and point it at two people and not point it at the homeless third person to the right of the frame, or not include the murder that’s going on to the left of the frame. You take 35 degrees out of 360 degrees and call it a photo.
La scelta di quei 35 gradi taglia inevitabilmente fuori degli elementi – ed ecco che nasce la possibilità di creare un’interpretazione, frutto di un incrocio tra gli sguardi di chi scatta, di chi è protagonista dello scatto e di chi a sua volta guarderà lo scatto.
Ci si rende conto – intellettuali, fotografi e spettatori – che fotografia e realtà sono in dialogo ma non sono la stessa cosa: fotografare significa creare nuove realtà. Una fotografia non è più la semplice e fedele rappresentazione della realtà, ma è piuttosto una sua narrazione. E infatti “il fascino della fotografia è che non esiste senza il reale, ma non rappresenta mai il reale: racconta sempre qualcosa di più e qualcosa di meno, racconta sempre una storia”3.
Walter Benjamin individuava nella fotografia una particolare problematicità: l’assenza dell’aura. Questa concerne, nell’idea del filosofo, l’hic e il nunc dell’opera d’arte, ciò che la individua nel tempo e nello spazio e la rende unica, irriproducibile. La fotografia, in quest’ottica, non solo riproduce la realtà, ma lo fa in più e più copie, perdendo dunque così l’aura. Cercare l’originale di una fotografia è come cercare l’origine di una fiaba: non può esistere perché una fiaba – o una fotografia – è il frutto di elementi diversi combinati insieme e offerti a ogni essere umano, che a sua volta la modifica anche solo ascoltandola – o guardandola: la rende parte di sé.
Potremmo però sostenere che l’aura di una foto vada cercata nell’incontro fra tre realtà: quella esterna, quella di chi compie l’atto creativo della foto e quella di chi la riceve – non guardando passivamente, ma osservando alla ricerca di qualcosa.
Il vero cambiamento, la vera perdita dell’aura e del senso anche inconscio dell’opera d’arte non si ha tanto con l’invenzione del nuovo mezzo artistico, quanto piuttosto col cambiamento del luogo nel quale l’arte si trova a essere: Internet e i social. Scrive Valentina Tanni in Memestetica:
La macchina fotografica non fa altro che estendere lo sguardo e diffondere i suoi prodotti, potenziandolo oltre ogni immaginazione. Da allora molte cose sono cambiate, e l’introduzione delle tecnologie digitali ha messo in moto un’ulteriore rivoluzione. Il nodo problematico oggi non riguarda più soltanto il rapporto tra occhio e obiettivo e dunque tra uomo e macchina, ma coinvolge la natura più profonda dell’immagine (…). L’incontro con il digitale ha determinato una disseminazione inarrestabile del fotografico.
È nell’ambiente digitale che regna la ripetibilità, estesa molto più di quanto Benjamin potesse immaginare, infinita nella quantità e dalla qualità sempre più ineffabile; l’immagine fotografica che vive e si moltiplica online non ha sempre, in effetti, grosse pretese di valore artistico. Se l’Arte interroga l’uomo, Internet gli concede il lusso di avere ogni risposta a disposizione.
L’immagine si adatta perfettamente a questo ambiente e fin quando si tratta di immagini a scopo puramente informativo il problema non si pone. Ma pensiamo all’utilizzo della fotografia in quell’ambiente particolare che è il social network: qui a prevalere è – più o meno pacificamente – l’interazione tra gli utenti. Questa interazione crea un senso di comunità in cui non si può far altro che apparire: testi, immagini e video sono strumenti alla portata di tutti e il loro uso è certamente individuale ma ha una risonanza collettiva: l’interazione non è diretta e personale ma potenzialmente infinita. Uno spazio privato che diventa collettivo: quale può essere il risultato? Potremmo ipotizzare: la dissoluzione dei confini della singola dimensione privata.
Interiorità e intimità
Roland Barthes sembra voler esprimere questo concetto quando scrive:
siccome il privato (…) è anche e in più il luogo assolutamente prezioso, inalienabile, in cui la mia immagine è libera, siccome è la condizione di un’interiorità che credo confondersi con la mia verità (…) io finisco col ricostruire, attraverso una necessaria resistenza, la separazione del pubblico e del privato: io voglio enunciare l’interiorità senza concedere l’intimità.
Il bisogno umano di creare relazioni e di sentirsi parte di un gruppo risiede proprio in quest’atto di “enunciare l’interiorità”, sempre più confusa con quell’intimità tanto preziosa in cui l’immagine è libera.
Bisognerebbe allora cominciare a distinguere tra tipologie diverse di immagini, individuando come fattori discriminanti il luogo in cui esse si trovano, lo scopo con cui vengono scattate e il target a cui sono dirette.
Una fotografia intesa nel senso classico del termine non ha il suo luogo di appartenenza originale nella Rete, sebbene essa possa essere uno dei suoi spazi di diffusione; i suoi ambienti “naturali” sono molteplici: i libri, le mostre, gli archivi, le riviste e i giornali, le cornici, gli album di famiglia, gli hard-disk, la galleria del cellulare. È quell’immagine scattata per molteplici motivi, ma il cui scopo essenziale è quello di essere semplicemente vista ed è diretta all’individuo in quanto tale, sia nella dimensione interiore che in quella intima.
C’è poi quella che potremmo definire immagine fotografica, simile nella forma apparente alla fotografia, ma sostanzialmente diversa perché il suo luogo finale è la piattaforma social; lo scopo non è più quello di mostrare qualcosa, piuttosto quello di mostrare se stessi, un modo non per raccontare ma per raccontarsi. Se qui il protagonista dell’immagine è l’individuo che scatta (anche quando non si tratta di un selfie), il suo target è diametralmente opposto: è la comunità, un gruppo più o meno definito, una “bolla” da cui ci si aspetta una reazione – un like, una emoji, un commento – che si svolge solo in quel luogo.
Infine, potremmo individuare un terzo tipo categorizzandolo come immagine digitale la quale nasce, si evolve e si diffonde esclusivamente online: i meme, le gif, gli stickers, le stesse emoji; il suo scopo è la pura diffusione e dunque il suo target è il maggior numero possibile di utenti, non più divisi in bolle. Questo tipo di immagini naviga tra le piattaforme, attraversandole trasversalmente e raggiungendo così quasi tutti.
Queste tre tipologie finiscono per appartenere a “realtà diverse”; la realtà, come scrive Paul Watzlawick, ha in sé due aspetti che spesso vengono confusi: il primo
concerne le proprietà puramente fisiche, oggettivamente discernibili delle cose. Quest’aspetto viene pertanto collegato strettamente (…) alla verifica scientifica oggettiva, ripetibile.
Il secondo
consiste nell’attribuzione di significato e di valore a queste cose e si basa quindi sulla comunicazione.
È in questo secondo aspetto che il significato dell’immagine diventa complesso e soprattutto un fattore determina il posto che tale immagine, indifferentemente dalla tipologia cui appartiene, assumerà nel bagaglio psichico del fruitore: l’attenzione. Per richiamarci a Benjamin
colui che si raccoglie davanti all’opera d’arte – a un’immagine, nel nostro caso – vi si immerge; penetra in quest’opera (…). Inversamente, dal canto suo, la massa distratta fa sprofondare l’opera d’arte in sé.
Non tutte le immagini sono fatte per immergercisi dentro, così come altre non possono fare a meno di sprofondare nella massa; abituati come siamo alla distrazione, inglobare ogni immagine sembra un processo automatico e innocuo; invece ciò che lasciamo entrare nel nostro immaginario rimane lì e finisce per influenzare le nostre azioni, i nostri pensieri, la nostra personalità. Susan Sontag attribuiva alla fotografia la capacità di insegnare un nuovo codice visivo:
Le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e, cosa ancor più importante, un’etica della visione. Infine la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero.
Prima dell’avvento di Internet poteva essere più facile fare una scelta consapevole di quali e quante immagini lasciar entrare nella propria testa; ma oggi siamo continuamente sottoposti a un flusso continuo di interpretazioni visive del mondo.
Come si fa a nuotare in questo mare sempre più esteso di immagini?
La realtà della realtà
Un primo aiuto per “imparare a nuotare” è la consapevolezza che tutti noi abbiamo il potere di creare immagini: la facilità d’uso degli strumenti fotografici, l’intuitività dei programmi di fotoritocco, l’innovazione delle tecnologie AI sono tutti fattori che avvicinano un ampio e variegato numero di persone al mondo dell’immagine. Certo, quando l’accessibilità di un’arte diventa così estesa, è quasi inevitabile che la tecnica – venendo sempre più semplificata – vada a perdersi. Quello tra tecnica e arte è un delicato equilibrio che deve necessariamente riassestarsi ogni qual volta nel mondo si affacci un nuovo modo di fare arte: le nuove tecniche – come è accaduto per la fotografia – mettono in discussione l’arte stessa, sfidandola a rinnovarsi.
Marshall McLuhan, nella sua analisi sulle nuove tecnologie illustrata in Il medium è il massaggio (1967) scrive:
Societies have always been shaped more by the nature of the media by which men communicate than by the content of the communication.
La particolare forma di comunicazione umana che stiamo qui analizzando – le immagini – oggi sta conoscendo un nuovo modo di esistere proprio perché è nuovo il medium che la predilige. Il problema sorge, sempre richiamandoci a McLuhan, quando non si coglie la differenza sostanziale che un nuovo mezzo comporta per il contenuto o, per citare ancora lo studioso canadese:
Our “Age of Anxiety” is, in great part, the result of trying to do today’s job with yesterday’s tools – with yesterday’s concepts.
Non è più, oggi, una questione solo di gap temporali (fare le cose di oggi con gli strumenti e le concezioni di ieri) ma anche un problema di diversità ambientale. Nel nuovo ambiente digitale le competenze richieste sono sempre meno: tutti siamo capaci di far tutto perché per farlo non dobbiamo essere particolarmente esperti.
Così accade di cadere nell’illusione di poter sapere tutto, di avere competenze pur non avendo conoscenze e, soprattutto si finisce con l’avere una tale confidenza con l’ambiente digitale da farne completamente parte; di più: si finisce col lasciare che tale ambiente faccia completamente parte di noi, ce lo portiamo dietro in tutti gli aspetti della nostra vita e, senza rendercene conto, finiamo col rinunciare alla nostra intimità.
Un consiglio che ci arriva sempre da McLuhan è quello di essere “anti-ambientali” – non nel senso di rifiutare l’ambiente digitale ma piuttosto di essere in grado di pensare al di fuori di esso; per farlo, bisogna essere dilettanti.
Professionalism is environmental. Amateurism is anti-environmental. Professionalism merges the individual into patterns of total environment. Amateurism seeks the development of the total awareness of the individual and the critical awareness of the groundrules of society. The amateur can afford to lose. The professional tends to classify and to specialize, to accept uncritically the groundrules of the environment. (…) The “expert” is the man who stays put.
Mentre il professionista tradizionale è colui che rimane immobile, il dilettante è libero di sperimentare, di fare e soprattutto di pensare le cose in modi nuovi e diversi. Nel caso dell’ambiente digitale il processo è più sottile perché non si tratta di essere quanto piuttosto di avere la coscienza di essere dilettanti.
Questo processo è descritto da Valentina Tanni come de-skilling in relazione alla produzione di opere d’arte, anche se possiamo facilmente applicarla anche alla produzione delle immagini in generale: si tratta di una “perdita di centralità della competenze tecniche e manuali” che sposta “il baricentro dall’esecuzione all’ideazione”.
In questa nostra moderna era di tecnologia abbiamo infinite possibilità di realizzare – di rendere dunque reali – le nostre idee; ma queste rischiano di essere le grandi assenti nel nostro immaginario, affollato da tutte le immagini del mondo e dunque in contemplazione di nessuna di esse.
Nel tentativo di riequilibrare arte e tecnica, di rinnovare gli strumenti con cui interpretiamo il mondo e di trovare nuovi concetti attraverso cui guardarlo, non dobbiamo trascurare la necessità di fermarci a osservare, collezionare con cura visioni del reale e recuperare una capacità contemplativa che possa generare nuove idee.
Greta Giglio
Bibliografia
Barthes, R., La camera chiara, Torino, Einaudi, 2003.
Benjamin, W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2020.
Ferrara, M., Ramina, G., Click & Net - Laboratorio Tecnico Multimediale, Clitt editore, 2018.
Manodori Sagredo, A., Fotografia, storie generi iconografie, Bologna, Bononia University Press, 2011.
McLuhan, M., Fiore, Q., The Medium is the Massage, Corte Madera, Gingko Press, 2006.
Sontag, S., Sulla fotografia, Torino, Einaudi, 2021.
Tanni, V., Memestetica. Il settembre eterno dell’arte, Roma, Nero, 2020.
Watzlawick, P, La realtà della realtà. Comunicazione - Disinformazione - Confusione, Roma, Astrolabio, 1976.
Ferrara e Ramina.
Manodori Sagredo.
Ottima riflessione, complimenti.