Due pesci si incontrano e uno dice all’altro: “Fredda l’acqua oggi, vero?”. Il secondo risponde:
Acqua? Cos’è l’acqua?
Oltre un secolo di psicoanalisi ci ha abituato al principio che una larga parte della psiche è celata ai nostri stessi occhi: che l’inconscio sia depositario di emozioni, sentimenti, contenuti che non vediamo direttamente è un concetto ormai non particolarmente sorprendente.
Al contrario, risulta molto più difficile accettare che ci sia invisibile qualcosa che abbiamo sotto il naso come nella barzelletta dei pesci. Nel numero di oggi ci riferiamo alla mentalità, intendendo con questo termine l’insieme di idee, griglie interpretative, atteggiamenti attraverso i quali giudichiamo (sia in termini di realtà che di valore) noi stessi, gli altri e il mondo che ci circonda e che riteniamo “indiscutibili”. Sono i nostri assiomi. Lo sono talmente tanto, anzi, che diamo per scontato che siano universali, gli unici possibili: delle realtà autoevidenti e non bisognose di spiegazioni o giustificazioni.
A questo concetto, che userò qui in senso molto lato e a diversi livelli – collettivo, gruppale, individuale – ben si adatta (tanto che mi prenderò la licenza di usare le due definizioni in modo intercambiabile) la definizione di “visione del mondo” (Weltanschauung) di K. Jaspers (Psicologia delle visioni del mondo, corsivi miei):
Cos’è una visione del mondo? È qualcosa di totale e universale a un tempo. Parlando ad esempio del sapere, visione del mondo non può dirsi un ramo del sapere considerato singolarmente, bensì il sapere come totalità, come cosmo. Per altro la visione del mondo non si esaurisce in un sapere, e importa anche una valutazione, una plasmazione di vita, un destino, una viva e intima sperimentazione di un ordinamento gerarchico dei valori.
La mentalità ha a che fare con la vita, l’esperienza e i valori; ha a che fare inoltre col sapere ma non è il sapere in sé, nonostante ci si senta portati a crederlo e quindi a ritenere – erroneamente – che ciò che sappiamo in virtù di questi assiomi sia, appunto, indiscutibile e universalmente condiviso.
Collettivo
Nel 1944, Ruth Benedict riceve l’incarico dal governo USA di studiare la cultura giapponese sì da organizzare la migliore strategia possibile per concludere una guerra che ormai si stava spostando sempre più verso il Pacifico e la cui prossima conclusione era tutt’altro che certa.
Fra tutti i nemici che gli Stati Uniti hanno dovuto affrontare in una guerra di vaste dimensioni senza dubbio i Giapponesi sono stati i più diversi da noi: in nessun altro conflitto di tale gravità era stato necessario tener conto di differenze così profonde nei modi di agire e di pensare. Come già era successo alla Russia zarista nel 1905, ci trovavamo di fronte ad una nazione perfettamente armata e preparata che non apparteneva alla tradizione culturale occidentale e per la quale quelle convenzioni belliche che le nazioni occidentali erano abituate ad accettare come normali espressioni della vita umana, erano del tutto inesistenti. La guerra nel Pacifico fu quindi qualcosa di più di una serie di sbarchi sulle spiagge delle isole oceaniche e di un problema di logistica militare di insuperata difficoltà: la questione più difficile rimase quella di comprendere la natura del nostro avversario, perché solo attraverso la conoscenza delle sue abitudini potevamo essere in grado di affrontarlo con successo.
Al di là della contingente necessità bellica, quello di Benedict è un impegno transculturale di grande impatto (porrà le basi, ad esempio, per i concetti di civiltà di vergogna e civiltà di colpa che verrano successivamente usati da Dodds nel suo I Greci e l’irrazionale). I punti chiave di questo approccio sono esemplificati in poche righe all’inizio de Il crisantemo e la spada, pubblicato nel 1946 (grassetti miei):
Il mio compito non era semplice. L’America e il Giappone erano in guerra, ed in guerra è facile condannare in blocco, ma è assai più difficile cercare di comprendere i punti di vista del proprio avversario. Ad ogni modo bisognava farlo. Il problema era quindi quello di determinare come si sarebbero comportati i Giapponesi, e non come ci saremmo comportati noi al loro posto; dovevo utilizzare il loro comportamento bellico come un insieme di dati utili per comprenderli, evitando di considerarlo come un capo di imputazione; dovevo valutare il loro modo di condurre la guerra per se stessa, e, lasciando da parte i problemi militari, considerare la questione come un problema culturale, dato che qualsiasi attività, sia pacifica che bellica, è espressione della personalità di chi la compie.
Tale impegno consiste dunque in due elementi di fondo:
accettare che, in virtù di una diversa mentalità, la catena di azioni e reazioni non coincida con i patterns che riteniamo scontati;
intraprendere questo lavoro senza lasciarsi condizionare dalle proprie cornici etiche.
In condizioni di alta conflittualità, questo approccio richiede una fatica cui il cittadino comune è decisamente meno preparato dell’antropologo culturale. Nel 2004 George Lakoff interpreta (in Don’t think of an elephant!) le posizioni di Repubblicani e Democratici alla luce di due distinte metafore: quella dello strict father model per i primi e del nurturant parent model per i secondi. Pur dichiarando espressamente di preferire quest’ultimo modello, Lakoff si rende conto che se non si riconosce nella controparte la sussistenza di una diversa – al di là del giudizio di valore – visione del mondo, la comunicazione sarà impossibile o addirittura controproducente.
The strict father model begins with a set of assumptions: The world is a dangerous place, and it always will be, because there is evil out there in the world. The world is also difficult because it is competitive. There will always be winners and losers. There is an absolute right and an absolute wrong. Children are born bad, in the sense that they just want to do what feels good, not what is right. Therefore, they have to be made good.
Lo stesso linguaggio che a una parte politica appare rassicurante, per l’altra può essere avvertita in modo diametralmente opposto fino a rappresentare una minaccia all’ordine sociale e alla civiltà stessa.
The strict father model links morality with prosperity. The same discipline you need to be moral is what allows you to prosper. The link is individual responsibility and the pursuit of self-interest.
Il self-interest (inteso anche come autosufficienza) diventa quindi addirittura un dovere morale nei confronti della collettività. Ciò che per gli uni viene vissuto come libertà e progresso (per esempio il principio di solidarietà), per gli altri può quindi essere esperito come pericolo, caos e regresso.
Do-gooders screw up the system.
Gruppale
Che si condivida o meno l’approccio di Lakoff (basato sull’identificazione delle metafore secondo cui viviamo e sulla necessità di formulare un reframing per farci capire dall’altro), egli ha comunque colto un punto fondamentale (grassetti miei):
Unfortunately, all too many progressives have been taught a false and outdated theory of reason itself, one in which framing, metaphorical thought, and emotion play no role in rationality. This has led many progressives to the view that the facts – alone – will set you free. Progressives are constantly giving lists of facts. Facts matter enormously, but to be meaningful they must be framed in terms of their moral importance. Remember, you can only understand what the frames in your brain allow you to understand. If the facts don’t fit the frames in your brain, the frames in your brain stay and the facts are ignored or challenged or belittled.
Se ignoriamo la visione del mondo entro la quale i fatti vengono interpretati, la mera comunicazione di questi fatti è totalmente inefficace.
The myth (…) goes like this: The truth will set us free. If we just tell people the facts, since people are basically rational beings, they’ll all reach the right conclusions.
Al di fuori dell’agone politico, l’erronea convinzione che “basti riferire i fatti” per trasmettere un’informazione o per correggerne una falsa è abbondantemente rappresentata nell’interminabile confronto tra novax e molti solerti autoproclamati divulgatori. Il (dolosamente) falso costrutto dell’associazione tra vaccino per il morbillo e autismo (l’infame lavoro poi ritirato da Lancet di Wakefield) si trascina ormai dal 1998 con effetti ben noti; ma si inserisce in una diffidenza, in certe aree del mondo, per le campagne vaccinali in genere.
L’antropologa Heidi Larson (autrice di Stuck: How Vaccine Rumors Start and Why They Don’t Go Away) ha iniziato a interessarsi alle ragioni di questa diffidenza mentre lavorava per l’UNICEF e ha condiviso alcune significative conclusioni in un TED Talk del 2020.
One of the most moving or alarming rumor episodes that I investigated was in northern Nigeria (…). The rumors were suspecting that the polio vaccine was actually a contraceptive. It was controlling populations – or maybe it caused AIDS. No, no, maybe it’s the CIA spying on them or counting them. I mean, why else would they have people knocking on their door again and again with the same polio vaccine? When children were dying of measles, no one was coming with measles vaccines. This wasn’t about getting the facts right. This was about trust. It was about broken trust.
Ciò che può sembrare logico e coerente a chi giunge con una offerta di aiuto può essere invece percepito come profondamente contraddittorio rispetto alla propria esperienza da chi quella proposta la riceve. Verrebbe da pensare che l’elemento transculturale sia qui determinante e – benché ovviamente abbia la sua influenza – i risultati delle ricerche del gruppo di Larson sono sorprendenti: la parte del mondo con il maggior indice di diffidenza da vaccino è la culla dell’Illuminismo: l’Europa.
A colleague we work with, Jon Kennedy, (…) found that people who are most likely to vote for a populist party also were the ones most likely to strongly disagree that vaccines were important, safe or effective.
In particolare, tre elementi risultano essere particolarmente problematici: i vaccini sono sviluppati da scienziati (visti come una casta che opera in modo poco trasparente e impone le proprie decisioni senza sottoporle al vaglio della collettività), prodotti dall’industria farmaceutica (percepita come alla mera ricerca del profitto) e regolati da governi e istituzioni (contro la cui autorevolezza i movimenti populisti basano la propria sussistenza).
Questa, che da sottocultura per dimensioni si sta trasformando sempre più in una vera e propria cultura, viene violentemente avversata da chi si trova dall’altra parte. I “sapienti” snocciolano dati, grafici, tabelle, condividono pubblicazioni, si appellano alla validità della scienza (spesso anche con un imprudente eccesso di zelo), esibendo un atteggiamento di dileggio e non facendo altro che confermare e rinforzare, così, le angosce dei dubbiosi.
In una ipotetica “psicologia novax” coesistono in varia misura diversi elementi:
mancanza di competenza
tendenza a prendere decisioni irrazionali
chiusura narcisista e/o tratti persecutori
scarsa tolleranza alla complessità
scarsa tolleranza al conflitto (sì, per quanto paradossale possa sembrare, ma questo è tema cui dedicare altri spazi)
paura
Ma per ciascuno la miscela è diversa per cui non è corretto mettere sullo stesso piano il medico (competente ma con questioni psicologiche gravemente irrisolte e autore di condotte criminose) con la madre ansiosa (nella sua legittima mancanza di informazioni, trattata con sufficienza da chi ha il compito invece di rassicurarla in un modo che a lei sia recepibile).
In questa incapacità di fare reframing, si perde la possibilità di recuperare quella quota di persone catturate nelle echo chambers sbagliate, che sono però quelle che le hanno accolte a braccia aperte, fatte sentire ascoltate e comprese:
The “highly negative” – what we might call the antivaccine groups – were recruiting the undecided at a rate 500 percent faster than the provaccine groups. 500 percent faster. They were more nimble, they were responsive and they were listening (…). We have an abundance of scientific information to debunk false rumors. That’s not our problem. We have a relationship problem, not a misinformation problem. Misinformation is the symptom, not the cause. If people trust, they’ll put up with a little risk to avert a much bigger one.
Individuale
Scendendo ora al piano individuale diventa necessario fare alcune precisazioni che elencherò, per sintesi, in modo schematico.
Tolleranza
Ciascuno di noi ha la propria visione del mondo: il problema non è averne una ma non rendersi conto che essa non coincide necessariamente con quella dell’Altro. Questa puntualizzazione apparentemente così banale è in realtà alla base di molti grossi fraintendimenti quando si confrontano culture diverse. Se nel 1945 il problema di Ruth Benedict era il Giappone, oggi per noi l’Altro è innanzitutto il migrante.
L’atteggiamento prevalente di fronte a persone che esibiscono comportamenti che consideriamo fortemente distonici con la nostra cultura è quello della tolleranza. Questo è purtroppo un concetto molto problematico: “tollerare” indica il consentire (con un implicito senso di superiorità), il lasciar fare, un po’ nello spirito che R. L. Stevenson attribuisce all’inizio del suo Il Dottor Jeckyll e Mr. Hyde a Mr. Utterson e che poco ha a che fare con la “concessione” (bontà nostra) della libertà:
“Tendo all’eresia di Caino”, diceva d’abitudine, con tono arguto, “Lascio che mio fratello vada al diavolo come più gli aggrada.”
Questa forma di relazione dis-interessata, de-responsabilizzata, difesa all’occorrenza dall’altrettanto problematico principio del rispetto (nel senso di re-spicere, cioè il guardare da lontano) è il contrario esatto di ciò che occorre: incontro, conoscenza reciproca, reciproca accettazione e quindi – alla fine di un processo – integrazione. Tutto ciò implica ovviamente grande fatica, investimento, conflitto, rischio, possibilità di fallimento.
Cambiamento
Come scritto sopra, ogni visione del mondo è il risultato di una miscela personale di esperienze, idee e atteggiamenti psicologici. Ma come il pesce della barzelletta può essere spostato da una forte corrente e percepire per un istante l’esistenza dell’acqua, anche noi abbiamo la possibilità di mettere sotto esame la nostra mentalità e distinguerne i limiti, soprattutto quando essa entra in frizione col mondo circostante. Nel cogliere questa possibilità andiamo incontro alla possibilità della trasformazione; nel rifiutarla ci irrigidiamo in un mondo pieno di sicurezze ma privo di sorprese. Scrive sempre Jaspers:
Quando poi possediamo, saldi e cristallini, mondo e realtà e mete, o non abbiamo fatto ancora nessuna esperienza delle possibilità di maturare una visione del mondo, oppure siamo calcificati in un guscio e non ne facciamo più.
La visione del mondo però, per quanto detto, tende ad apparire monolitica: è un complesso di convinzioni e presupposti che, evolutisi in modo così intrecciato, non permette revisione di una sua parte senza che ne venga messa in crisi l’interezza. Per questo motivo, più essa è rigida più resistiamo a metterla in discussione, giacché, come scrive Peirce (Collected Papers, 5.372):
Il dubbio è uno stato di disagio e insoddisfazione contro il quale lottiamo per liberarcene e passare nello stato della credenza; mentre quest’ultimo è uno stato di calma e di soddisfazione che non desideriamo evitare o mutare per sostituirlo con la credenza in qualche altra cosa (…). Noi ci aggrappiamo tenacemente non soltanto a credere, ma a credere proprio ciò che crediamo.
Etica e discernimento
Tutti gli integralismi (fra cui le posizioni novax radicali ma – e per quanto scritto sopra dovrebbe ormai essere chiaro il motivo – anche l’integralismo razionalista che a volte gli si oppone; allo stesso modo le adesioni ideologiche più acritiche, gli integralismi religiosi di ogni specie etc.) difendono l’intero impianto sottomettendo a esso ogni considerazione perché l’alternativa è la frantumazione dello stesso.
Questa non può e non vuole però essere una giustificazione etica: per quanto coartata, esiste – è questa la mia convinzione – intrinseca nell’essere umano la possibilità di compiere atti liberi e responsabili (è questa anzi l’essenza vera e propria dell’actus humanus).
Ciascuno nella misura in cui è capace, ma, in quella misura, capace.
Grazie per l’attenzione,
Cristiano M. Gaston